Traggiche Criature
In Sala Prove incontro spesso giovani minorenni o appena maggiorenni che non sanno proprio cosa sia, il teatro, non avendolo mai fatto nè visto. Cominciamo a farlo, e in loro non agisce alcuna aspettativa né hanno immaginari cui riferirsi. Ciò che avviene, continuando, è la scoperta del teatro come qualcosa di assolutamente nuovo, e in questa scoperta, per come la vedo manifestarsi, intravedo il teatro nella sua radice, ne individuo la fonte, il suo significato profondo, il suo “perché”: la sua origine. Questo incontro con il senso originario del teatro è vitale, per chi lo fa: la natura infantile e giocosa del piacere della finzione irrompe fragorosamente e impone un modo nuovo di stare insieme, di vivere la relazione con l’altro, e nutre tutti di un possibile sguardo diverso su di sé e sul mondo, rivelando tutta la necessità civile del teatro.
Questa stagione va così più che mai, provando a godere fino in fondo del piacere della finzione, della teatralità sfacciata e manifesta. E lo facciamo pescando figure “tragiche”, della letteratura teatrale e non (a ciascuno la propria), su cui lavorare e da mettere in vita scenica e in relazione. Creature intrappolate dal proprio destino cui proviamo a dare voce e corpo, immaginandole a morte (tragica) avvenuta, insieme, riunite in un al di là che è un teatro e in cui giocano, da attori, a rievocare le vicende che hanno contrassegnato la propria esistenza. E il teatro, per queste creature, si offre come occasione per ribellarsi a essa, non tanto per come è avvenuta quanto per come è generalmente raccontata, una ribellione verso le immagini consolidate, i clichè con cui vengono trasmessi i fatti che li hanno coinvolti.
E così, per questo primo studio, abbiamo immaginato Yeborath la protagonista di un racconto di Tabucchi, Donna di Porto Pim, che rievoca da un proprio inedito punto di vista la tragica vicenda del suo assassinio; e un Icaro che ci ricorda, per dirla con Oscar Wilde, che “la più grande tragedia di tutti è non provare mai la luce che brucia”; una Giulietta che rifugge dalle sdolcinature mielose del suo ruolo e sogna d’amare Mercuzio; e infine un Amleto, attraverso Flaiano, stanco del suo ruolo di emblema del teatro, di essere bollato attore per sempre, e che prova a comporre una fuga dalla trappola della condizione nella quale il fantasma del padre lo ha costretto.
Nobili e tragiche creature che proviamo a sottrarre al destino delle loro apparenze, che abitando la scena da attori si ritrovano, ironizzando la propria eterna condizione, a farsi “traggiche criature”, ma senza burlarsi di se stesse, che sarebbe facile e consolatorio, solo manifestandosi, nel gioco del teatro (ironizzato anch’esso), come destini che slittano, impegnati a scoprire con il teatro che si può essere altro rispetto a ciò che immaginiamo, o ci lasciano immaginare, che un’altra idea di sé è possibile, che ogni destino, anche il più segnato, ne può celare un altro da vivere e raccontare. Come nella vita, quella vera.
Testo di Lello Tedeschi